Capello e Tardelli, lezione di calcio ai detenuti di Poggioreale

Parte ufficialmente Football Leader 2017. Alla Casa Circondariale di Poggioreale standing ovation degli oltre cento detenuti presenti in sala all’ingresso di Marco Tardelli e Fabio Capello. A moderare il talk show nella chiesa del carcere Xavier Jacobelli. Prima del dibattito i saluti del governatore della Campania Vincenzo De Luca: “Un grande abbraccio a voi e alle vostre famiglie. Voglio ringraziare soprattutto queste due figure, due simboli non solo del calcio italiano ma del nostro Paese per quello che hanno dato allo sport dentro e fuori dal campo. Sono due combattenti: hanno subito delle sconfitte, sono caduti ma non si sono mai arresi. Grazie per la formazione che farete ai giovani allenatori”. Ottanta ore di corso per aspiranti gli aspiranti coach nel carcere di Poggioreale. L’annuncio ufficiale è del vicepresidente dell’Aiac Biagio Savarese: “Un corso per formare e informare chi vi parteciperà. Lezioni di metodologia e teoria dell’allenamento, tante ore dedicate alla tattica. Lezioni sulle regole di gioco, con arbitri ed ex arbitri. Infine, alcune ore saranno dedicate alla nostra associazione. Il presidente Scarfato sarà presente durante il corso per informare delle attività che svolgiamo. Auguro a tutti i partecipanti buon divertimento prima che buon lavoro”. Alla domanda di un detenuto che chiede quali opportunità professionali per il corso, Savarese chiarisce: “Sarete formati per un impegno nel settore calcistico. La certezza dell’Aiac è che un corso del genere possa lenire un po’ la pena ma dare anche qualche piccola proiezione futura. Si tratta solo del primo passo del cammino completo perché poi bisognerà partecipare ad altri tre successivi corsi che consentiranno di allenare i giovani di tutte le categorie, poi gli adulti dilettanti. Bisogna provarci. Con questo corso comincerete a farlo”. Entusiasta per l’evento, Antonio Furlone Direttore della Casa circondariale di Poggioreale: “Il nostro è un luogo anche di discussione sul calcio ci fa sentire la comunità del carcere vicino alla società, al territorio. Il calcio è rimasto uno dei pochi elementi di identità collettiva. C’è anche un po’ la storia individuale, sentimentale. Per un’operazione di ricostruzione bisogna partire da sé stessi”.

Alle domande di Jacobelli, Fabio Capello si racconta: “Un piacere ed onore stare con questi ragazzi. Abitavo in un piccolo paese e c’era solo la scuola calcio. Mio padre aveva la passione per il calcio e me lo ha insegnato. Sono andato alla Spal quando avevo 11 anni. Non avevo il telefono e scrivevo due lettere a settimana a mio padre. Si accorse che qualcosa non andava e venne a Ferrara. Ricordo che mi disse ‘Provaci’. Ecco, provateci, senza coraggio non si raggiungono gli obiettivi. A 18 anni il primo infortunio, a 21 il secondo. Quando gli altri andavano a mare io mi mettevo a lavorare. Indossavo la scarpa di ferro per tenere la muscolatura. Qualche volta la strada è tortuosa ma bisogna provarci. Quando ero giocatore solo la voglia e la determinazione mi hanno portato a rimettermi in discussione. Non solo il calcio. Ci sono anche altre situazioni nella vita che sono ripartito”.
Il calcio italiano.Per prima cosa cercherei di far sì che ci fosse una giornata dedicata allo sport una volta a settimana perché lo sport unisce, aiuta. Con una giornata di sport a settimana si crea una forza unica, lo spirito di squadra. Cosa che manca qui da noi, manca lo spirito nazionalistico. In Inghilterra e in Russia si respira un’atmosfera diversa. Il secondo passo è avere stadi di proprietà. Non deve vivere solo la domenica, tutti i giorni. Bisogna aiutare a livello tecnico i settori giovanili. Quando ho allenato la primavera del Milan andavo nelle piccole società ed era una gioia immensa guardare la voglia dei bambini di giocare a calcio. Oggi, le scuole sono diventate un business. Tante non sono all’altezza della situazione”.
Come si costruisce una squadra di invincibili come il tuo Milan? “Quando vai a Madrid capisci che sei in una squadra straniera e ti devi adeguare. Se non lo capisci diventa complesso. Serietà, serenità e rispetto: non fare capricci, prima di tutto. Se uno arriva in ritardo o chiede qualcosa di diverso, esce dal campo e non dà la mano all’allenatore manca di rispetto a tutta la squadra. Questa linea di condotta del rispetto è importantissima. I leader che lo capiscono trasmettono la mentalità vincente alla squadra. Le squadre vincenti hanno leader positivi. Se in una squadra dessimo ai giocatori la possibilità di fare la formazione per 10/11 sarebbero gli stessi che scelgono gli allenatori. Il Milan ha vinto perché chi passava il testimone trasmetteva una mentalità vincente”.
Il giocatore più difficile da gestire? “Uno è Cassano. Giovane, bravissimo in campo, matto fuori. Il più difficile è stato quello anche più bravo che ho allenato: il fenomeno, Ronaldo. Veniva da un infortunio, io ero a Madrid, si presentò a novembre e pesava 96 Kg. Al mondiale di Corea – Giappone ne pesava 84. Un peccato vedere un giocatore così forte non voler fare sacrifici per abbassare il peso. E’ arrivato a 94, ha giocato tre partite, le abbiamo perse”.
Nel corso della sua carriera di allenatore ha incontrato ragazzi con problemi con la giustizia? Forse qualche presidente. A pensarci, ci sono due casi. Uno era stato poco in carcere, veniva dalle favelas e l’altro dall’Argentina. Ho cercato sempre di supportarli sapendo che avevano trascorso un brutto momento della vita”.

Le domande dei detenuti. Mi piacerebbe allenare, qual è la cosa più importante per farlo? “Capire le persone, il rispetto e capire di cosa hanno bisogno i calciatori. Dicevo sempre ai miei: “Se avete bisogno, venite nello spogliatoio”. Ero sempre disponibile, sia per un problema tecnico che personale. La cosa più importante è il rapporto che c’è tra i giocatori e il secondo allenatore che fa da filtro, in particolar modo per le istanze di chi è più in difficoltà”.
Tra le varie squadre che hai allenato qualche ti è rimasta nel cuore? Ho avuto la fortuna di allenare squadre e di vincere. Ho finito la mia carriera al Milan ed è quella la squadra a cui sono più attaccato. Anche per una questione di successo. Il Real, la squadra del sogno. Senti subito di essere in una grandissima squadra. Ma anche l’esperienza in Inghilterra e Russia mi ha dato tanto, con tutte le difficoltà. Quindi, dico Milan ma ho avuto gioie da tutte le parti”.

Marco Tardelli, dopo il mondiale dell’82, a che tipo di calcio siamo arrivati? “A me piace il calcio del campo, quello fuori è cambiato rispetto ai miei tempi. C’era un’atmosfera diversa. Ci sono oggi degli allenatori molto più preparati sul campo ma molto meno nel contatto con i calciatori. Le difficoltà sono evidenti quando giochiamo all’estero. Io credo che sia ora di muoversi, fare qualcosa di importante, di costruire i vivai perché altre nazioni come la Germania lo hanno già fatto ottenendo risultati. Loro fatto bene, dobbiamo cominciare a fare così anche noi. In Italia c’è troppo campanilismo. Bisogna essere uniti tutti nello sport. Ieri ero qui a Napoli e quando la Juve ha perso hanno sparato i botti. Una squadra italiana che gioca all’estero merita il rispetto degli italiani.”.
Che giocatore era Scirea? “Non è facile parlare di lui al di là del giocatore fantastico che era, non ha avuto quello che meritava. Era capace di fare tutto, pronto a coprire gli errori degli altri in campo. Un compagno che sapevi di trovare sempre. Persona onesta, coraggiosa. Molto introversa ma un ragazzo fantastico”.
Allenatori italiani all’estero. “Tatticamente siamo più bravi degli altri, più attenti ai dettagli. Quando andiamo all’estero riusciamo ad applicare alla tattica questa voglia dei calciatori stranieri di essere più liberi. Io credo che il leader se lo scelga lo spogliatoio se non c’è un allenatore che può farlo. Quello è fondamentale sia per l’allenatore che per la squadra perché fa da unione tra i due”.
Come si fa a riprovarci dopo un incidente di percorso? “Io sono stato fortunato perché non ho mai avuto incidenti. Però all’inizio ho fatto una gran fatica perché i miei genitori non capivano niente di calcio e non erano d’accordo. Soprattutto mia mamma. Tante volte andavo a giocare e rientravo di nascosto. L’unica cosa che ho dovuto riprovarci sempre è sulla mia fisicità. Molte volte sono stato scartato da Inter, Milan, Bologna perché non avevo una credibilità fisica. Ho cercato sempre di portare avanti la mia passione ma ci vuole anche fortuna. Non mollare mai è il segreto”.
Le domande dei detenuti. Pensavi di entrare nella storia del calcio prima del mondiale del 1982? “Io ho fatto l’urlo di importante. E’ rimasto quello. Si tratta anche di una cosa che mi ha perseguitato perché sembra che ho fatto solo quello. Ho fatto anche 50 goal, giocato con la squadra che non amate. Entrare nel calcio italiano non è semplice. Maradona lo ha fatto, io sono più indietro ma credo di aver fatto qualcosa di carino”.
Il mondo del calcio potrebbe aiutare i giovani a non prendere una strada sbagliata? Ero figlio di operai che vedevo poco e avrei potuto sbagliare strada, incontrare persone che mi avrebbero fatto del male. Ho puntato sul calcio che mi ha sempre tenuto fermo sul campo, sul pallone. Molti altri miei compagni non ce l’hanno fatta. Oltre al calcio metterei la cultura. Ho preso il diploma però mi è mancato molto lo studio. Credo serva molto per indirizzarti nella vita”.
E’ possibile creare una selezione nazionale di detenuti allenata dal un big del calcio?  Dipende dalle istituzioni, non possiamo decidere noi. Ma siamo pronti ad impegnarci.
Ai margini dell’incontro il saluto di Gianni Di Marzio che raccoglie il caloroso abbraccio della platea: “Sono pronto a fare il vostro allenatore!”



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